Carissima Jole, Sorriso di Dio,

per quanti ti hanno conosciuta, ricordarti è pensare prima di tutto a quel sorriso aperto e luminoso con cui accoglievi chiunque entrasse nella tua stanza. Così, il giorno in cui mi hai fatto vedere le foto della festa per i tuoi 19 anni (l'ultimo compleanno nel quale stavi bene), guardando quella bellissima cascata di capelli scuri ed il sorriso splendido, accanto al tuo ragazzo, mi dicevo che non c'era paragone tra quel sorriso comune a tante ragazze della tua età, felici di quanto la vita dona loro, ed il sorriso che hai saputo mostrare nella malattia, sorriso eroico, prodigio della grazia. La mamma di Federica, parlando di te, diceva ammirata: «Quella ragazza non si lamenta mai!». Chi avesse voluto obiettare che non avevi neppure più la forza per lamentarti, avrebbe dovuto spiegare da quali misteriose profondità traevi la forza per continuare a sorridere. Il dolore infatti l’hai conosciuto a fondo. - Che cosa ti fa male, Jole? . ti chiedevo. - Tutto. Vedendo come affrontavi le cure più dolorose ti domandavo se eri sempre stata così coraggiosa. Mi rispondevi: - No, Lo sono diventata qui, per forza. Ti rammaricavi un pochino di non poter fare niente perché stavi sempre sdraiata: - Non fare niente è la cosa più difficile – osservavo. Con disarmante semplicità dicevi: - Ma poi ci si abitua, si impara. E oggi siamo noi, Jole, che veniamo a scuola da te. Per imparare a sorridere nelle prove, per imparare ad accoglierle con la tua docilità, la tua mitezza. Per essere ancora capaci, nella malattia, di vedere gli altri e i loro bisogni. La tua ultima richiesta, in ospedale, è stata infatti per un bambino ammalato: hai voluto acquistare alcune monete, per la sua collezione. La tua giovinezza in boccio era in parte la fonte dalla quale traevi speranza per guardare al futuro e ti sforzavi di riaprire i libri di ragioneria in vista dell’esame, facevi progetti per il lavoro, la vita. Ma i momenti di sconforto erano lì, in agguato e allora ti lasciavi sfuggire, discretamente: - Mamma, perché proprio a me? Gesù ha deciso di divertirsi, con me? Mamma, che cosa ho fatto io a Gesù Cristo? Non era facile per te, non è facile per noi, Jole, addentrarci nei misteri di Dio, nei suoi pensieri «che non sono i nostri pensieri», nelle sue strade «che non sono le nostre strade» (cf Is 55,8). Se qualche volta hai camminato in esse con fatica mai però le hai solcate con amarezza, con ribellione. Il tuo percorso interiore resta un segreto per noi; certo è che Gesù (al quale ti sei aggrappata fino all’ultimo nell’eucarestia) ti ha istruita nell’intimo e condotta verso la verità che hai accolto con un coraggio tale che ora ci lascia stupiti, ammirati e un po’ sgomenti. Tu infatti sapevi. A un’amica scrivevi bigliettini brevissimi che portano il sigillo della tua semplicità: «sto male»; «io non guarisco»; «arriverà il momento che morirò». Tu stessa lo hai annunciato al tuo ragazzo: - Teo, sto morendo. Estremo atto di coraggio e di carità, cercavi di nascondere alla mamma il fatto che non vedevi più. Lei era spaventata e tu la rassicuravi: - No mamma, ci vedo un pochino. La mamma ora commenta: «Le sono stata vicina, giorno e notte e non mi ha mai fatto pesare le sue pene». Le parole d’elogio che la Sacra Scrittura rivolge a Giuditta, valgono anche per te: «Il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore di quanti ti hanno conosciuta» (cf GDT 13, 19). Pensare a te, oggi, è pensare anche alla tua forte mamma. Un pomeriggio, in reparto, si festeggiava il compleanno di una bimba. All’inizio del corridoio, un gruppetto di persone accalcate attorno al tavolo del rinfresco. In fondo al corridoio, sola, la tua mamma, seduta su una seggiolina bassa, la testa tra le mani. In quei pochi metri di corridoio era riassunta tutta la condizione umana, fatta di momenti di gioia e momenti di dolore. E riflettevo su come sia più facile fare ressa là dove si festeggia, mentre chi soffre, spesso, viene lasciato solo. Anche se non sempre è per cattiveria o durezza di cuore. Il fatto è, Jole, che ci si sente così smarriti, così poveri, inadeguati di fronte a sofferenze come la tua. E allora si fugge. A gennaio, quando, fagottino di trentacinque chili, sei tornata per l’ultimo ricovero, osservavo il viso della tua mamma trasformarsi di giorno in giorno. Di solito sono i figli che riproducono le sembianze dei genitori. Qui avveniva il contrario: la tua mamma dimagriva con te, si incurvava con te, con te sfioriva. Guardandola, la associavo alla figura di Maria ai piedi della croce, tracciata così bene da un poeta: «Lei piangeva, pangeva. Le guance scavate, le guance segnate. In tre giorni era diventata spaventosa da vedere. La gente si diceva che era invecchiata di dieci anni. Il suo corpo si scioglieva. Camminava come senza volontà. Non riconosceva più se stessa. Lei sentiva tutto quello che avveniva nel corpo di suo Figlio, perché era sua madre. Ed è molto più doloroso veder soffrire il proprio figlio che soffrire noi stessi. È molto più doloroso veder morire il proprio figlio che morire noi stessi» (C. Péguy). Ma per la tua mamma, per tante mamme come la tua, ci sarà anche il giorno della festa, il giorno in cui, accanto ai figli, riceveranno dalle mani di Dio una corona di gloria, incorruttibile, eterna, secondo la promessa: «Nella miseria in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (1 Pt 4. 13). A noi ora viene chiesto di rallegrarci nella fede e nella speranza, ma per te la gioia è ormai certezza, meta raggiunta, premio conquistato. L’ultima immagine che ho di te era dia un anticipo di gaudio. Era una domenica di fine gennaio. Il giorno prima ti avevo parlato delle mimose e delle camelie, fiorite nel mio giardino. Mi avevi sorriso e così ti avevo portato un mazzolino di quei fiori, primo annuncio della primavera. Avevi giunto le mani, come una coppa, li avevi presi e vi avevi letteralmente affondato dentro il viso, ormai così minuscolo. Un po’ per vederli da vicino, perché la vista di stava abbandonando, ma forse, mi è sembrato, per tuffarti anche tu in questa corrente di vita che stava rinascendo. Così ora, poiché Dio è Vita, ti penso immersa nella Vita, in una Primavera eterna.

                                                                                                                             (Lauretta)